Mente sane, corpore sano

Si era rigirata sul letto senza trovare posizione, sapendo in cuor suo che l’unico modo per addormentarsi era riuscire a sedarli. Stavano li a fissarla senza tregua. Quando era successo? Quando aveva smesso di avere potere decisionale su di loro? La manipolavano come se fossero i padroni assoluti della sua mente e del suo corpo. Sgattaiolavano fuori con calma, appena spegneva la luce. Peccaminosi, diabolici ed astuti, pieni di quella malvagità che solo i bambini hanno. Malvagità perversa e innocente, di chi non ne può nulla, di chi ti calpesta un piede perché passava li per caso, ferendoti senza neanche rendersene conto. A loro non importava di quanto fosse stanca, della pesantezza della sua giornata. Le avevano teso da tempo il loro agguato. Cercava inutilmente di arrivare a letto senza forze per non dar loro modo di martoriarla. Ma sembrava che la notte, il letto, il lenzuolo, perfino la sua stessa stanchezza, erano complici nel loro macabro disegno di destabilizzazione. Era inutile porre opposizione, dopo qualche ora si lasciava andare alla disperazione, ai pensieri negativi, alle paure, alle angosce, ai problemi irrisolti, ai dubbi esistenziali. Cominciava tutto da una riflessione, e con organizzazione maniacale ogni pensiero aveva ingoiato gli altri, uno ad uno si erano divorati, diventando sempre più potenti, sempre più forti. Bussavano alla porta con la delicatezza di una anziana che mendica un piatto caldo per sopravvivere un giorno in più, e poi si prendevano la casa intera, squarciando le sue uniche sicurezze con la brutalità di un dittatore. Sfinita, stanca, sciupata, scolorita, le avevano tolto tutto, ogni speranza, desiderio, sogno, illusione… Per questa notte avevano finito con lei. Non avevano poi fatto grande fatica, si era arresa subito, consapevole della sua debole condizione da perdente.

Il problema più grande arrivava la mattina, quando riapriva gli occhi, e loro erano ancora li. Ma non per disturbarle il sonno, erano solo una presenza. Come un post-it per ricordare l’appuntamento con il dentista. Fra solo 16 ore si sarebbero rifatti vivi.  Ora stava a lei scegliere come passare quelle sedici ore di libertà vigilata. Poteva lasciarsi andare nuovamente al dolce Morfeo. O alzarsi da quel letto, staccarsi da quella placenta onirica, umida e dominante che la opprimeva.

Il primo battito era il più faticoso, quello sforzo inumano. Sradicarsi. Si alzava con la pesantezza di un elefante e si guardava allo specchio. Lo stava rifacendo, si biasimava. Si deprimeva. Tutto ad un tratto, sentiva un fastidio strano. Come una zanzare che ti punge sul braccio, se la ignori il fastidio si affievolisce con velocità feroce. Se invece la gratti insistente, cresce inverosimilmente. Dentro lo stomaco, una pressione minima. Una forza innata, piccola, minuta, quasi inesistente. Quasi irriconoscibile, aveva cercato di sintonizzare meglio quel rumore e aveva sentito un friabile vai”. Non poteva esitare, doveva cogliere al volo quell’opportunità. Allora prese le sue Runner colorate e cominciò a correre. Si sentiva un pò come Forrest Gump, ma meno sfigata. Chiudeva gli occhi, allungando le braccia verso il cielo e il sole attraversava tutto il suo corpo, ora si sentiva più Timothy Green,  il vento le riempiva i polmoni. Era fiacca, in effetti chi non lo sarebbe stato dopo aver dormito tre ore!. Ma quel rumore si stava facendo sempre più forte, cresceva a dismisura. La sentiva palpitante, insieme ai suoi respiri. Ogni passo era una epifania. Tutto ciò la riempiva di orgoglio.

Il suo psicoanalista le aveva detto che doveva crearsi un progetto. E lei, quella mattina, si sentiva capace di tutto. Si era seduta a riflettere, su quel progetto, ma non le veniva in mente nulla. Almeno per una volta non riusciva a pensava. Allora aveva preso i suoi ricordi e li aveva sistemati in ordine sparso sul tavolo della cucina, non aveva più paura di affrontare il passato, voleva guardarci dentro e vedere il suo futuro; un futuro emancipato dal passato. Dove emancipare non vuol dire cancellare o dimenticare, ma attraversare, capire e raccogliere il meglio, uscendone vincente. Dopo ore ed ore immersa nelle profondità della nostalgia, era arrivata la sera e si era messa a scrivere. Come aveva fatto a dimenticare come fosse curativo, scaricare su quelle lettere il peso della sua vita? Scrivere per esorcizzare. Per rendere utile le sue esperienze. Per incollarle a un foglie e poterne fare uso in qualsiasi momento. Vividi ricordi di infanzia, tristi momenti adolescenziali, crisi emotive, felici soggiorni all’estero, amori complicati, sogni passati, vite e nomi di gente mai conosciuta. Tutto questo ora faceva parte di lei, molto più di prima, ora che era riuscita a mettere tutto bianco su nero. ( Non ho mai accettato il fatto che il nero dovesse sopraffare il bianco, la scrittura non è sporcare il bianco puro con delle macchiette minuscole. La scrittura è dare luce al buio assoluto che c’è dentro di noi. Scavare nella oscurità, la brillantezza e la lucidità delle nostre parole. Marchiate BIANCO SU NERO.)

Sapeva che la fatidica ora stava arrivando. Ma questa volta non sentiva timore, nessuna angoscia, non avrebbe lottato, non si sarebbe rifiutata di ascoltare, non si sarebbe abbandonata alla condanna. NO. Questa volta, non avrebbe chiuso la luce per non vedere. Anzi. Avrebbe focalizzato le sue forze per ascoltare e domandare, non più resistenza, ma solo libertà di parola. Chi era lei per zittire i suoi pensieri?  Loro volevano parlare, e lei finalmente era pronta. Ci avrebbe fatto due chiacchiere. E alla fine, i suoi peggiori nemici l’avrebbero aiutata a trovare le motivazioni per alzarsi la mattina.

Perché ciò che non uccide, fortifica.

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